La salute non può essere oggetto di profitto. Questo afferma l’ultima sentenza della Corte Suprema indiana, che ha respinto il ricorso presentato dalla multinazionale Novartis in merito alla richiesta di rinnovo del brevetto per il farmaco antitumorale Glivec. Una sentenza lontana geograficamente, ma a noi molto vicina. Paesi come l’India e l’Africa sono in prima linea contro le grandi case farmaceutiche e la loro pretesa ad avere “esclusive” illimitate nella produzione di farmaci salvavita, in nome della difesa della proprietà intellettuale. Quei farmaci, costosissimi, piegano le finanze di molti stati o, più semplicemente, impediscono agli indigenti di curarsi. I costi per pagare i brevetti di Big Pharma incidono anche sulle nostre casse, dato che la sanità regionale, in Italia, è stata spesse volte commissariata dal Governo. Oggi, sappiamo che se certi farmaci fossero più economici, l’Africa non pagherebbe quell’altissimo tributo di vite per colpa dell’Aids e anche le dissestate sanità regionali vivrebbero una condizione migliore. D’altra parte, è vero che scoprire nuove molecole costa, ed è giusto riconoscere alle imprese un’equa remunerazione del capitale investito. Ecco, è questo il punto: equa remunerazione del capitale. Vent’anni di esclusiva riconosciuta ad una multinazionale, prima che altre ditte abbiano il diritto di fabbricare un farmaco generico – com’è oggi per il diritto sulla proprietà intellettuale – è un’equa remunerazione del capitale? Quando il prezzo di vendita è nella totale disponibilità del produttore? La ricerca costa e le imprese devono ammortizzarne i costi, ma senza speculare sulla pelle delle persone. Esiste infatti il diritto alla salute sopra ogni aspetto o sopra ogni logica, soprattutto quella del profitto. Perché lasciare solo ai privati l’onere di scoprire nuove molecole? Il dato che il 95% dell’aggiornamento dei medici in Italia sia lasciato alla munificenza delle case farmaceutiche apre al pericolo di pericolosa osmosi fra medici e multinazionali, comportando anche una bulimia del Servizio Sanitario Nazionale verso farmaci non “generici”.E’ ora di capire che la ricerca è un bene primario. Che non si può sacrificare in nome dell’austerità. Non solo per garantire la salute pubblica, ma anche per risparmiare e stornare dai nostri bilanci i pesanti costi delle royalty farmaceutiche, favorendo anche la permanenza dei ‘nostri cervelli’. Secondo “La ricerca e sviluppo in Italia”, di Istat, pubblicato il 29 dicembre 2011, la spesa in ricerca del nostro paese è pari a 19,2 miliardi di euro, solo l’1,26% del nostro Pil. Spendiamo quanto la Bulgaria, ben lontani dalla soglia prevista dalla strategia ” Europa 2020″, che suggerisce livelli di investimento pari al 3% del Pil.Il caso Glivec, secondo la Corte indiana, infine, ci racconta di uno sgradevole escamotage più volte praticato, per motivi commerciali. Quello di “ribrevettare” vecchi brevetti ormai scaduti, attraverso capziose alchimie, per garantirsi altri vent’anni di utile. Una prassi diffusa, se è vero che su seimila farmaci in circolazione solo 400 sono i principi attivi disponibili.Allora, è giunto il tempo di capire che la spesa nella salute e nella ricerca è essenziale. E’ ora di bilanciare in modo giusto il diritto all’utile da parte dei privati con il diritto ad un accesso equo, universale e libero delle comunità alla cura.Si tratta di una battaglia che non possiamo dimenticare, per onorare i principi della nostra Costituzione e la stessa Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, che abbiamo sottoscritto il 4 novembre del 1950 a Roma. Luigi de Magistris

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